E così siamo arrivati alla terza trasposizione ufficiale de L’uomo lupo targata Universal Pictures, tralasciando quindi i vari seguiti e gli adattamenti di altri studi come Wolf – La belva è fuori.

Matilda Firth e Christopher Abbott.
Dopo lo sfortunato rifacimento del 2010 con Benicio Del Toro ed un tentato riavvio con Ryan Gosling (rimasto produttore esecutivo), il regista e sceneggiatore Leigh Whannell ha deciso di lasciare in pace il personaggio di Lawrence Talbot e di trasferire la sua maledizione al malcapitato Blake Lovell, marito e padre moderno interpretato da Christopher Abbott. Se di “maledizione” possiamo parlare, questa volta.
Anni dopo l’inspiegabile sparizione del padre autoritario (Sam Jaeger), ormai ufficialmente dichiarato morto dalle autorità, Blake è costretto a ritornare nella desolata casa d’infanzia situata fra le foreste dell’Oregon, così da poter chiudere per sempre quell’opprimente capitolo della sua vita. Per recuperare i rapporti con sua moglie Charlotte (Julia Garner), decide di portare lei e sua figlia Ginger (Matilda Firth) in viaggio con sé, ma poco prima di arrivare a destinazione una misteriosa e sinistra creatura si frappone tra loro, ferendo Blake e obbligando la famiglia a rifugiarsi nell’abitazione abbandonata. I Lovell dovranno quindi proteggersi da questo essere ripugnante e… fare i conti con la progressiva trasformazione di Blake.

Whannell ritorna dunque nel mondo dei Mostri Universal dopo il discreto successo de L’uomo invisibile del 2020, originale trasposizione ispirata al libro di H. G. Wells frenata al botteghino dallo scoppio della pandemia.
Il piano avallato dal regista e concepito dal produttore Jason Blum è quello di attenersi ad un budget ridotto di appena 7 milioni. In L’uomo invisibile la tematica dell’abuso domestico e la rinnovata natura del protagonista aiutavano nella sobria resa generale, rispettando così le finanze investite. In Wolf Man si punta ancora su questo, confermando nuovamente il contenimento di spese e l’utilizzo di ambienti confinati.
Oltre ad aver mandato in pensione lo sventurato Talbot, Whannell sceglie di distinguere il suo lavoro abbandonando l’elemento soprannaturale, conferendo a questo nuovo Uomo Lupo una genesi di carattere scientifico. Di conseguenza, le sembianze sono giustamente distanti da quelle del classico licantropo reso iconico dal truccatore Jack Pierce nel film del ‘41 e riproposto da Rick Baker nel 2010, anche se la resa finale non è altrettanto emblematica.

Nonostante questo ammodernamento generale, Wolf Man risente di una sceneggiatura improbabile e troppo restringente, spalmata su ampie tempistiche esecutive che contrariamente avrebbero ridotto l’intera opera alla durata di un mediometraggio. Questo svolgimento un po’ troppo tranquillo porta il minutaggio a 104’, che sarebbe risultato giustificato se usufruito per un corretto sviluppo emozionale: il risultato è un film tedioso, che non fa percepire un’adeguata disperazione e un crescendo di orrore degno de La mosca di David Cronenberg. Più che a quest’ultimo, Leigh Whannell sembra guardare brevemente a Steven Spielberg e neanche ad uno dei suoi capolavori, con una scena che rimanda a Il mondo perduto – Jurassic Park, dove il licantropo scava nel terreno sotto la porta d’ingresso per poter entrare, come i Velociraptor di quel film. Inoltre, sembra alquanto improbabile che nell’abitazione del padre militaresco non ci siano delle armi da fuoco a portata di mano, in modo da ovviare a qualsiasi tipo di pericolo. Siamo in America, dopotutto.
Concludendo, il ritorno dell’Uomo Lupo non riesce a brillare nonostante la tentata innovazione su scala ridotta, rimanendo ancorato a tematiche (quelle fra padri e figli) paradossalmente più opprimenti ed efficienti nella pellicola del 2010.