Home Film Recensione Killers of the Flower Moon

Recensione Killers of the Flower Moon

by Luca Pernisco

“Sempre i dollari. Sempre quei cazzo di dollari”

Era questo che narrava Nicky Santoro (Joe Pesci) in Casinò, poco prima che i suoi scagnozzi iniziassero a “giocare a baseball” con lui e suo fratello Dominic. Una “partita” rimasta negli annali. L’arricchimento unto e facinoroso, l’omertà, il potere e l’inevitabile caduta. Questo è ciò che Martin Scorsese ha ritratto in film come Casinò, per l’appunto, ma soprattutto in Quei bravi ragazzi, mostrando che a lungo andare il crimine non paga.

Se in passato i banditeschi campi da gioco del regista sono stati Las Vegas e New York (e infatti, va ricordato anche Gangs of New York), questa volta si passa alle vere radici del mondo nordamericano, nel territorio della comunità dei nativi Osage, in Oklahoma. Una collettività che negli anni ‘20, grazie alla scoperta di giacimenti di petrolio, è stata fra le più ricche degli Stati Uniti, sfoggiando una scioccante agiatezza fra i caucasici. Un qualcosa che, inevitabilmente, ha attirato l’attenzione di sciacalli senz’anima.

Leonardo DiCaprio è Ernest Burkhart

Insomma, c’è del marcio nella contea di Osage. Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) è un reduce della Prima guerra mondiale, in arrivo a Pawhuska per riunirsi con suo zio William King “Il Re” Hale (Robert De Niro). Il soldato in congedo viene subito istruito dal parente su ciò che accade nel territorio: gli Osage, a quanto sostiene, sono una comunità cagionevole. Diverse morti sono avvenute prematuramente, in circostanze non approfondite e il Re sembra particolarmente votato ad indirizzare il patrimonio dei trapassati verso la sua più sana dinastia. Totalmente soggiogato dallo zio, Ernest viene spronato da quest’ultimo a corteggiare e sposare Mollie Kile (Lily Gladstone), detentrice di un’ingente dote insieme ai suoi familiari.

Martin Scorsese, con lo sceneggiatore Eric Roth, mette mano al libro Gli assassini della terra rossa di David Grann, a sua volta tratto da eventi realmente accaduti. Il regista, con la complicità di Leonardo DiCaprio, abbandona l’idea usuale di una storia investigativa per esplorare i fatti dall’interno, dal punto di vista del sempliciotto Ernest Burkhart e di sua moglie Mollie.

Lily Gladstone è Mollie Kile Burkhart

DiCaprio rinuncia volentieri al ruolo d Tom White – agente ligio al dovere del neonato FBI (all’epoca BOI, Bureau of Investigation) – lasciandolo all’attore Jesse Plemons, per concentrarsi invece su un personaggio sottomesso al potere del parente, la cui ignoranza non lascia presagire i veri sentimenti e pensieri. Si nota subito che l’ispirazione per l’aspetto fisico, ovvero l’evidente mascella pronunciata, proviene da quello esibito da Marlon Brando ne Il padrino, aggiungendoci una parlata spossata imposta da una ferita di guerra allo stomaco. L’Ernest Burkhart di Leonardo DiCaprio è un Henry Hill (Ray Liotta in Quei bravi ragazzi) alternativo, più burattino, poco astuto e meno allietato. L’unica che sembra poterlo rallegrare è la sua consorte Mollie, interpretata da un’ottima Lily Gladstone, la cui fede e l’amore nei confronti del marito la inducono ad allontanare lo sguardo da ciò che effettivamente sta succedendo alla sua gente e a sé stessa, affrontando il tutto con una tragica forza.

Robert De Niro è William King Hale

Come già accaduto per l’ultima collaborazione fra l’attore e Martin Scorsese, ovvero The Irishman, Robert De Niro lascia finalmente la svogliatezza vista in sue recenti pellicole (obbrobri come Nonno questa volta è guerra e Papà scatenato, ma forse è meglio non ricordare), per regalare un’interpretazione ineccepibile. Il suo “Re” Hale è un lupo camuffato da agnello, un serpente a sonagli che riesce a convincere un’intera comunità di essere un buon patriarca, amorevole come un micetto. Impassibile, negazionista davanti all’evidenza, porta avanti il suo piano con estremo autocontrollo, quasi come se credesse davvero che le morti premature degli Osage siano effettivamente legate a delle sventure naturali.

Con le sue tre ore e ventisei, Martin Scorsese mescola – come già sperimentato in The Irishman – la dinamicità delle sue precedenti pellicole gangster, con gli ampi respiri percepiti in Silence, sottoponendo lo spettatore ad una tensione angosciosa senza un momento di calo, facendogli percepire un minutaggio ridotto. Un dipinto crudo, orripilante e autentico su come il popolo nativo americano sia stato calpestato con orrore da striscianti individui dal volto sorridente.

You may also like

Leave a Comment

* By using this form you agree with the storage and handling of your data by this website.

This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish. Accept Read More